L’occasione è ghiotta. L’accordo raggiunto in sede comunitaria sul salario minimo ha generato una lunga serie di considerazioni. Sono più o meno tutte entusiaste della natura dell’intesa. A ben guardare la Direttiva, pur se lusinghiera nel suo predicato di migliorare le condizioni di lavoro (specie dei più giovani), non è direttamente applicabile. L’Italia infatti non rientra tra i paesi che hanno un tasso di copertura superiore all’80%. Soglia entro la quale i singoli Paesi saranno tenuti all’osservanza del “salario minimo”. L’asse della discussione si sposta ancora una volta sul tema della rappresentatività che attribuisce ai Sindacati una parte centrale nel negoziato contrattuale e, dunque, delle retribuzioni.

Va quindi ribadito che la mancata applicazione dell’art. 39 della Costituzione incida ancora in modo significativo sulle relazioni industriali e sugli assetti (anche produttivi) del Sistema Italia. Non è infatti un caso che di salario minimo se ne discuta da anni, essendo addirittura inserito nell’agenda politica dei governi precedenti. L’esigenza di riscrittura dell’art. 39 della Costituzione ci ricorda quindi che in assenza di un meccanismo regolatorio ed organizzativo certo, ogni iniziativa, anche lodevole, possa riuscire solo a scaldare gli animi di un’estate italiana. In ogni caso i tirocinanti, così come ogni giovane costretto ad una forma di lavoro irregolare, resteranno al di fuori (ed al di sotto) di ogni iniziativa. Tanto per dire che la questione del salario minimo merita di essere trattata con discrezione e senza allusioni demagogiche vista la condizione “rivoluzionaria” che stiamo vivendo e che, probabilmente, ancora non abbiamo compreso a pieno.

Avvocato Gianlivio Fasciano

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